[Musica] Muore a 71 anni Lou Reed

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karma77
00lunedì 28 ottobre 2013 13:35
ci sono rimasto di merda

notizia sentita per caso: c'era la TV accesa sul TG1 della sera

grazie Lou, con la tua musica non morirai mai!

un'Artista IMMENSO

li4m
00lunedì 28 ottobre 2013 13:37

Lou Reed: A Last Sad Song To The Wild Side
di Matteo Meda

Lou Reed se n'è andato. Sembra incredibile a dirsi, è stato incredibile sentirlo dire, leggerlo. Una di quelle notizie a cui non si vuol credere, per le quali ogni speranza non è mai vana da coltivare, tanto sorprendono. Una notizia di quelle che seppur riguardati un essere umano che non si ha mai avuto modo di conoscere se non per mezzo della sua arte, riesce a sconvolgere esattamente come se ad andarsene fosse stato un amico di lunga data, un maestro, un condottiero, insomma un pezzo importante della propria vita, della vita di tutti coloro che amano la musica. Un mito, un idolo, un simbolo.

Con Lou Reed se ne va un mattone decisamente imponente della storia del rock, anzi, per dirla come avrebbe voluto lui, del rock'n'roll. Già, se ne va. Perché inutile è oggi rifugiarsi nelle classiche frasi di conforto, nel “la sua musica vivrà nel ricordo storico e artistico per l'eternità”. Lou Reed e la sua musica erano una cosa sola, un tutt'uno inscindibile in tutte le loro forme. E scomparso uno, scompare pure l'altra. Potremmo ascoltare per l'eternità i suoi classici, continuare ad amarli, premere “play” ancora e ancora. Ma senza di lui, la sua musica sarà come una medaglia con una sola faccia, l'anima senza il corpo. Ascoltare un disco di Lou Reed senza Lou Reed equivarrà a camminare nella zona selvaggia senza quell'unico condottiero in grado di aprire la strada, di guidare nell'esperienza, l'unico che quel selvaggio l'ha conosciuto nella sua totalità perché, prima ancora di averlo cantato, narrato, eretto ad arte, l'ha vissuto, incarnato, simboleggiato.

Già, perché in cinquant'anni abbondanti di carriera, Lou Reed ha rappresentato il rock'n'roll in tutte o quasi le sue accezioni. A turno, come un attore che si cimenta in una moltitudine di ruoli diversi, ogni volta immedesimandovisi anziché limitandosi a recitare una parte. Trasformando - parafrasando il più celebre fra i suoi capolavori - ciascun costume, di volta in volta, nella propria pelle. Quello dell'avanguardista, in primis, che portò il binomio sesso-droga al suo estremo massimo mediante l'arma della perversione. Quello che in parallelo, assieme a John Cale, destrutturò di fatto le radici fondanti del r'n'r, ne segnò i limiti e le possibilità, ne stabilì confini che a tutt'oggi rimangono in gran parte insuperati. Quello della glamstar poi, del “lato selvaggio” per l'appunto, del rapace delle notti metropolitane. E ancora, quello della rockstar che non scende a compromessi, senza peli sulla lingua, che dichiara senza mezzi termini che il segreto del suo successo è solo ed esclusivamente un innegabile talento. E infine, quello del colto e attempato intellettuale, quasi aristocratico nel suo spontaneo anticonformismo, con lo sguardo di chi è consapevole di stare sempre e comunque una spanna sopra tutto e tutti.

Chi scrive non lo ha mai negato: se si fosse mai trovato a poter avere l'occasione di intervistare Lou Reed, avrebbe probabilmente finito col rifiutare, col non voler correre il rischio di presentarsi dinnanzi a un mito per essere trattato come il moscerino che effettivamente è. Le manifestazioni della realtà sono dure da accettare, per tutti, anche per un uomo, un artista apparentemente inossidabile, imperturbabile, invincibile. Che alla fine, invece, ha dovuto inchinarsi, per una volta, sottomettersi. Ma Lou Reed se n'è andato vincendo, per assurdo, la sua battaglia di vita: ovvero soccombendo a non altri che a sé stesso. Pagando tardivamente il prezzo di una gioventù “bruciata” da alcol e da quell'eroina a cui scrisse pure la più famosa delle dichiarazioni d'amore. Di anni ne aveva settantuno, ma molti ne aveva presi in prestito proprio allora, per resistere e proseguire sulla sua strada selvaggia. Quella che oggi, nella maniera più naturale ma ugualmente scioccante, si è interrotta. Bruscamente, come giusto e naturale che fosse, esattamente come brusche e violente erano state tutte le precedenti curve dell'ideale linea che rappresenta la vita di Lou Reed.

A noi, oggi, resta una discografia di quasi trenta titoli, bootleg e raccolte esclusi, di sicuro non tutti imprescindibili, ma testimoni dell'avventura di un artista che è sempre e solo stato, fino in fondo, sé stesso. Un patrimonio che senza di lui resta però incompleto, parziale, e che solo chi ha avuto modo di ascoltare con la consapevolezza che in quel momento il vecchio Lou si stava probabilmente fumando una delle tante sigarette o bevendo una birra, ignaro e disinteressato a ciò che lo circondava, ha potuto sperimentare a fondo, nella sua interezza. Che potrà oggi continuare a risplendere ma di una luce riflessa, per quanto irrefrenabile e indomabile come lo fu il suo autore. Restano una manciata di brani che già erano e oggi ancor di più resteranno impressi nell'immaginario collettivo. Canzoni, o forse sarebbe meglio dire poesie. Resta un esempio encomiabile di quella filosofia di vita che recita “volere è potere”, un emblema estremo ma decisamente indicativo di un modus vivendi di una cui dose le generazioni odierne (di cui chi vi scrive fa parte) avrebbero un gran bisogno.

Quelle stesse che nel giorno della sua scomparsa si sono strette attorno a Reed, intonando all'unisono con i reduci degli anni d'oro un coro fatto di link, stati e foto su Facebook, tweet e catene di messaggi. “Addio Lou”, “R.I.P.”, “This is not a perfect day”. Persone che magari conoscevano “Sunday Morning” grazie a recente pubblicità di noto operatore elettrico nostrano. O che avranno sentito “Perfect Day” in qualche servizio televisivo su gloriose vittorie sportive. O ancora che si saranno trovati “Walk On The Wild Side” fra le esecuzioni di qualche concorrente di uno dei troppi talent show. O forse infine, e c'è da crederci, molti di loro conoscevano davvero Lou Reed e i Velvet Underground: per passione e ricerca personale, per eredità paterna, grazie al suggerimento di qualche amico. Qualsiasi sia il mezzo, qualsiasi sia la ragione, qualsiasi la modalità con cui siano arrivati al dunque, fra le voci che oggi si stringevano c'erano anche, in gran numero, le loro.

Poi ci sono gli artisti. E lì si arriva a un elenco lunghissimo, forse infinito. Fra di loro, due in particolare hanno colpito più di tutti. Il primo è John Cale: l'ex-compagno di avventure divenuto nemico, l'eterno rivale. Quello che con Reed era riuscito a litigare persino a distanza di un ventennio dalla fine dei Velvet Undeground, persino quando lo scopo della tentata riconciliazione era ben più importante di qualsiasi screzio, quando da omaggiare c'era quell'Andy Warhol che per primo aveva lanciato entrambi, credendo nella più classica scommessa suicida. John Cale, che ogni volta che ha incrociato Lou ha con lui partorito solo ed esclusivamente capolavori, come lo fu “Songs For Drella”. John Cale che – testuali parole – piange la perdita dell' “amico del cortile di scuola”, spiazzando tutti, dai fan di entrambi a chi della storia sapeva poco o nulla. Il secondo è Trentemøller: uno nella cui musica c'è ben poco di reediano, che è stato però fra i primissimi, tramite il suo profilo Facebook, a definirsi senza parole e a condividere una lunga serie di video-ricordi. Infine ci sono le persone comuni, quelle che il fenomeno a gittate irregolari se lo sono vissuto in parte o in tutto. E infine c'è New York, la sua città, la sua metropoli, quella dipinta fra eleganza e decadenza nell'omonimo capolavoro dei suoi Ottanta.

Lou Reed ci ha lasciati. Soli, nel mezzo del selvaggio cammino in cui ci aveva guidati per cinquant'anni. Incapaci a distanza di ore dalla notizia di rassegnarci, di accettare che le cose siano andate così. Speranzosi di sentirci dire che è stata tutta una bufala, al punto tale da non sorprenderci se nel giro di qualche mese iniziassero a circolare le prime voci di presunti complotti o menzogne. Molto più probabilmente, invece, ci sentiremo dire (e diremo, come nel caso del sottoscritto), con spietato ma quantomai realistico cinismo, che fosse morto un paio d'anni fa ci saremmo risparmiati quella ciofeca imbarazzante di “Lulu”, che resta dall'altro lato un'ultima, emblematica dimostrazione del “sono Lou Reed e faccio quello che voglio, compreso partorire una ciofeca a sessantanove anni al fianco dei Metallica”. Nulla di più coerente, insomma, e forse è stato giusto che la sua discografia si chiudesse così, con un botto, con un disco che ha fatto parlare in ogni caso tantissimo di sé. Senza dimenticare che nel '67 si usarono parole analoghe per “The Velvet Underground & Nico” prima e "Berlin" poi, ed è inutile dire che sappiamo com'è finita.

Per chiudere questo articolo, caro Lou, anzi Lewis, lasciami parlare per un solo istante in prima persona, lasciami rivolgere direttamente a te. A te che ora, da quel lassù in cui né tu né io personalmente crediamo, starai probabilmente compatendo me che perdo tempo a scrivere un articolo su di te di cui a te non sarebbe fregato nulla nemmeno da vivo, e a maggior ragione ora, che non ci sei più. A te che inorridiresti all'idea che qualcuno si possa arrogare il diritto di scegliere, come ho fatto io in tuo ricordo qui in basso, una canzone dal tuo repertorio per dirti addio, e pure dieci album per riempire la finestra lì a lato. Ma sai, senza volerlo tu mi hai insegnato molto, ci hai insegnato molto. Chiunque oggi faccia rock ti deve qualcosa, chiunque oggi conosca, studi o incarni il rock nel proprio modo di vivere si ispira anche solo indirettamente a te. E così, proprio per questo, ho ritenuto giusto, nel giorno della tua scomparsa, prendere esempio da te, comportarmi come avresti fatto tu, al mio posto, con un qualcuno che avesse rappresentato quel che tu hai rappresentato per almeno cinque generazioni. Ho ritenuto giusto fregarmene di tutto quel che ti ho scritto sopra, del fatto che un articolo non si dovrebbe scrivere in due persone diverse, del fatto che a chi mi legge probabilmente importerà poco di quest'ultimo, personale paragrafo, del fatto che ho amato un sacco di tuoi album ma per ricordarti ho scelto una sola canzone. Sono convinto, fino in fondo, che sia il modo migliore per dirti, nella tua lingua, quel grazie che la storia della musica ti deve e continuerà a doverti per sempre. Mentre tu continuerai a passeggiare, ovunque tu sia, On The Wild Side, qui per noi, tutti noi, è un Sad Day. Da celebrare con una Sad Song. La tua Sad Song.




li4m
00lunedì 28 ottobre 2013 13:40
muore uno dei piu grandi di sempre
un giorno tristissimo per chi non sa distinguere tra musica e vita

senza di lui non sarebbe stato lo stesso mondo...

oggi è un giorno triste, immenso lou, hai cambiato la storia



dalla pagina fb degli who

"RIP lou, walk on the peaceful side"
li4m
00lunedì 28 ottobre 2013 13:44
bravetto
00lunedì 28 ottobre 2013 15:05
un grande, un granddissimo

rest in peace
Elio90
00mercoledì 30 ottobre 2013 00:05
wholly
00mercoledì 30 ottobre 2013 13:43
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