grazie fratello
Morto il Torino non il Toro
10 agosto 2005
di Massimo Gramellini
DA un granata da legare non aspettatevi necrologi. Qualcosa come: «Ieri, alle 18,41, ci ha lasciati dopo lunga malattia l’A.C. Torino 1906: lo annunciano straziati un milione di tifosi, tutti bambini fra i 6 e i 90 anni. Il funerale avrà luogo non appena Cimminelli troverà i soldi per pagarlo. Si attende a minuti una fidejussione dal pianeta Papalla: il presidente Romero rimane ottimista».
Mi dispiace, non siamo morti, anche se fallire a un anno dal centenario è nelle nostre corde.
Ma la morte, per quelli del Toro, resta cosa più seria di un'evasione fiscale. La morte è Superga, è Meroni, è il sacro Filadelfia ridotto a un mozzicone come certi ruderi dell'Antica Roma. La morte, se sei granata, impari a conoscerla da piccolo, quando tuo padre invece di Cenerentola ti racconta la favola di undici campioni che un giorno presero l'aereo per il paradiso e vi si trovarono talmente bene che non tornarono più. Fra noi, ancora adesso, c'è chi si domanda se il Grande Torino sia mai esistito, o non sia piuttosto un racconto di fantasia inventato dagli adulti per farci addormentare la notte con quelle sillabe magiche sulle labbra: «Forza Toro, sempre forza Toro».
La morte la ripassi a scuola, quando la maestra t'interroga sulla basilica di Superga e tu rispondi che si tratta di una chiesa costruita dalla Juventus, apposta per farci cadere il Toro sopra, come si deduce chiaramente dal cognome dell'architetto: Juvarra. La morte, almeno per me che ero minuscolo quando Meroni la incontrò, è il Toro che dopo i funerali segna 4 reti alla Juve (3 Combin, 1 Carelli) e tutti esultano fra le lacrime - tipica gioia granata - mentre la Maratona grida «Gigi-Gigi» e allora scoppio a piangere anch'io, coprendomi la faccia con la bandiera e diventando così ufficialmente tifoso per la vita.
La vita, non la morte. Perché il Toro, pur abitando nel dolore o forse proprio per questo, resta quanto di più lontano possa esserci dalla quiete e dal distacco supremi. Il Toro non è una squadra di calcio, altrimenti sarebbe già venuta a nausea, come quasi tutto il calcio. Il Toro è un'idea, piena di luce e di rabbia. L'idea che tu stai sotto ma tornerai sopra, prima o poi, e nessuno ti trasporterà in alto se non sarai tu a raccogliere le forze contro tutto e tutti, anche contro te stesso e i tuoi pensieri peggiori, che ti sussurrano all'orecchio «tanto non ce la farai mai».
In passato il tifoso granata ha mortificato spesso la sua diversità, rappresentandosi come un vittimista e lamentoso catalizzatore della sfiga cosmica. Ma il Toro, il mio Toro è un ragazzino di 18 anni che corre come la freccia scoccata da un ubriaco e sparacchia palloni contro i riflettori alzando i pugni al cielo per minacciare una riscossa imminente, mentre sugli spalti i tifosi anziani gli gridano: «Ritirati, brocco! Tanto non ce la farai mai!». Invece noi bambini non smettiamo di incitarlo, dato che ai nostri occhi incarna l'Idea: «Forza, Pulici!». E un giorno quel brocco diventerà Puliciclone, il goleador dell'ultimo scudetto, il «tremendista» cantato da Brera e Arpino, e ogni suo gol sarà sempre un po' nostro, sarà la prova che ogni tanto il cielo va preso a pugni.
Quelli del Toro conoscono la morte e la vita, quella vera. Coltivano le vittorie come i grandi amori, eventi rari da godere appieno e riassaporare nel ricordo fino allo sfinimento (altrui). Retorici? A tratti, comunque meno di un tempo. Sanno che il Toro di Pulici è ancora vivo. Certo, sanno anche che il Torino Calcio è morto. Non ieri, però. Molti anni fa. Lo ha ucciso un complesso di arroganze, compresa quella dei tifosi che spinsero alla fuga Sergio Rossi, ultimo presidente-imprenditore prima di una pletora di affaristi e finanzieri, i «furbetti del quartierino» che noi abbiamo sperimentato in anticipo.
I furbetti hanno depredato il Toro senza neppure conoscerlo. Con scelte castranti come l'abbattimento del Filadelfia e la dispersione del vivaio, decise entrambe da un dirigente peggiore di Vidulich e Cimminelli: l'ex comparsa cinematografica Giorgio Calleri, quello che cedette Bobo Vieri al Venezia in cambio della comproprietà del formidabile Petrachi. Persino Mani Pulite ci mise del suo: la fine politica del torinista Craxi coincise con la chiusura dei rubinetti bancari a cui aveva attinto l'abile e spregiudicato Borsano. Quel Toro è morto all'Olimpico, una sera d'estate del 1993, con una Coppa Italia fra le mani. Non c'è stato più niente che gli assomigliasse, dopo. Solo folate di ricordi che si materializzavano in figli degni del «Filadelfia» come Camolese e Zaccarelli. Ma da dodici anni il Torino Calcio era un malato terminale, attaccato alla spina delle nostre paure.
Ora che ci hanno portato via tutto, anche la spina, guai se ci rimanessero addosso solo le paure. Restano i tifosi e un gruppo un po' sgangherato di aspiranti rifondatori, pieni di passione ma a corto di esperienza e quattrini. Resta, soprattutto, l'Idea. Quella non ha bisogno di fidejussioni per vivere. Si staglia all'orizzonte della nostra sofferenza, in tutto il suo splendore fuori dal tempo. Il sogno di una squadra che, unica al mondo, si allena in un tempio situato nel cuore della sua città, educando generazioni di giocatori e tifosi all'umiltà e all'orgoglio di essere Toro.
Chi è cresciuto col granata negli occhi, e naturalmente nel cuore, sta cercando da anni qualcuno che ricominci a finanziare quel sogno. Al riguardo si sono scritti decine di libri e migliaia di articoli, organizzate marce di popolo e partite di vecchie glorie al Filadelfia. Ma se nessun appello ha raggiunto lo scopo, forse significa che dobbiamo cavarcela da soli. Del resto, a cosa serve proclamarsi diversi, se poi si finisce per aspettare, come i tifosi delle altre squadre, che qualche mecenate dai dubbi trascorsi e dalle ancor più dubbie capacità ci tolga dai guai?
Il Toro merita di essere salvato dai suoi tifosi, un milione di persone da monsù Pautasso al cavalier Ferrero, da cento euro a centomila: tutti potrebbero contribuire, ciascuno in base alle proprie possibilità, a un'operazione seria di azionariato diffuso. In Spagna, terra di toreri, funziona. Non so quanto sia fattibile in Italia. Ma se mai lo fosse, non potrebbe che esserlo qui: nella terra del Toro.