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Mazzola: "Con l'Inter di Herrera tanti trionfi, ma quei caffè....."

Ultimo Aggiornamento: 10/11/2015 13:22
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anteprima dal titolo "Le Cose Sono Vere": gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2015/11/10/le-cose-so...


Ora che ha parlato Sandro Mazzola, permettetemi qualche ricordo: personale e giornalistico.

Andai da Ferruccio, il fratello minore, un giorno di primavera di dieci anni fa.

Ci incontrammo all'estrema periferia di Roma, dove l'ex calciatore viveva, in una casa modestissima, non lontano dal campetto dove - credo gratis o quasi - allenava i ragazzi del quartiere. «Lo faccio per sentirmi vivo e per insegnargli a non doparsi», diceva.

Mi ci aveva mandato, da Ferruccio, Carlo Petrini. Che pochi ricordano e alcuni confondono con l'omonimo fondatore di Slow Food: invece era stato un centravanti di una certa fama negli anni Settanta, poi era stato condannato per il calcioscommesse e parecchi anni dopo aveva tirato fuori tutto quello che sapeva - non solo sui soldi, ma anche sul doping e il resto - in un libro che ancora oggi vale la pena di leggere.

Petrini ormai aveva fatto del suo stesso pentimento e della moralizzazione del calcio una battaglia di vita. Andava nelle scuole, a parlarne e a spiegare ai ragazzi cosa c'era dietro il mondo dorato del pallone.

Così, dopo un'intervista che gli avevo fatto sul suo libro, Petrini mi fece conoscere la vedova di Bruno Beatrice, Gabriella, che aveva appena fatto causa alla Fiorentina e alla Federcalcio perché fossero riconosciute le responsabilità di entrambe nella morte, a 39 anni, del marito. Ne vennero fuori un paio di pezzi per l'Espresso, con qualche conseguenza: una querela per diffamazione da parte di Carletto Mazzone (che poi prudentemente rimise) e una promessa mai mantenuta di Diego Della Valle di far giocare al Franchi una partita di beneficenza "Memorial Bruno Beatrice".

Dopo che avevo scritto della Fiorentina dei '70, Petrini mi consigliò di occuparmi anche dell'Inter, della grande Inter dei '60. Per me era un mito, quella squadra: ero bambino quando mio padre mi portava a vederla trionfare. Sarti, Burnich, Faccetti, eccetera. Ma quando Petrini me ne parlò ero già abbastanza grande per mettermi alle spalle il tifo e andare ad ascoltare Ferruccio Mazzola, che aveva da pochissimo pubblicato il suo libro, "Il terzo incomodo". Non se l'era filato nessuno, quel volumetto di ricordi, e non solo perché il suo editore era poco potente. Un muro di silenzio l'aveva sepolto, un muro di convenienza e non solo nerazzurra: nessuno ha interesse a denudare quella grande macchina da soldi che è il mondo del pallone.

Quando andai a intervistarlo, in quella periferia romana, Ferruccio era un uomo stanco, amareggiato e preoccupato. Quasi pentito di quello che aveva scritto nel libro, per via della causa milionaria che gli aveva intentato l'Inter di Moratti. E perché quelle pagine avevano provocato la rottura dei rapporti con Sandro, il fratello maggiore e più bravo sul campo.

Mi confermò lo stesso tutto quello che aveva scritto, in modo ancora più chiaro ed esplicito. In realtà la mia intervista non conteneva niente di più di quello che c'era nel libro. Semplicemente, le accuse erano più dirette: «Ho visto l'allenatore, Helenio Herrera, che dava le pasticche da mettere sotto la lingua. Le sperimentava sulle riserve (io ero spesso tra quelle) e poi le dava anche ai titolari. Qualcuno le prendeva, qualcuno le sputava di nascosto. Fu mio fratello Sandro a dirmi: se non vuoi mandarla giù, vai in bagno e buttala via. Così facevano in molti. Poi però un giorno Herrera si accorse che le sputavamo, allora si mise a scioglierle nel caffè. Da quel giorno 'il caffè' di Herrera divenne una prassi all'Inter. Non so cosa certezza cosa ci fosse dentro, credo fossero anfetamine. Una volta dopo quel caffè, era un Como-Inter del 1967, sono stato tre giorni e tre notti in uno stato di allucinazione totale, come un epilettico. Sandro e io, da quando ho deciso di tirare fuori questa storia, non ci parliamo più. Lui dice che i panni sporchi si lavano in famiglia. Mio fratello ha paura di inimicarsi i dirigenti nerazzurri. E tutti quelli che stanno ancora nel calcio non vogliono esporsi, temono di rimanere tagliati fuori dal giro. Sono legati a un sistema, non vogliono perdere i loro privilegi, andare in tv, e così via».

Ripeto: rispetto al libro c'era poco di nuovo. Però l'intervista servì a rompere il muro di gomma. Non tanto sui mainstream media - specie quelli sportivi - ma soprattutto in Internet: un po' perché fu ripreso dal blog di Beppe Grillo e un po' per tifo anti interista. Ricevetti anche una valanga di insulti da parte dei supporter più accaldati della stessa squadra per cui tifo io e alle cui partite sono stato abbonato per quasi dieci anni, secondo anello rosso. Tempo dopo, occupandomi di Moggi e Giraudo, ne avrei ricevuti altrettanti da tifosi di altra parte.

Nel 2011 Ferruccio Mazzola fu assolto: la causa intentata da Moratti, che tanto lo preoccupava, finì in un autogol. Ferruccio era già malato: morì due anni dopo.

Pochi mesi prima se n'era andato anche Petrini, dopo un'altra lunghissima malattia che negli ultimi anni gli aveva tolto quasi del tutto la vista. I due ex calciatori che hanno raccontato la verità sul gioco più bel mondo non ci sono più.

«Le cose sono vere», ammette però oggi Sandro, testualmente. E aggiunge particolari nuovi: come i valori sballati, i giramenti di testa, il medico che voleva fermarlo e Herrera che si oppose.

Non so perché, a 73 anni, Sandro Mazzola ha deciso finalmente di dire tutto. Se per età, intendo dire, o per indifferenza alla nuova dirigenza dell'Inter.

Ma in fondo non importa. «Le cose sono vere», questo è l'importante. Ed è l'omaggio più dovuto a suo fratello Ferruccio, centrocampista fragile ma uomo onesto e coraggioso.



ed ecco la confessione di Mazzola: www.corrieredellosport.it/news/calcio/serie-a/inter/2015/11/07-5658541/mazzola_linter_di_hh_la_staffetta_e_quei_caff_/?cook...


C’era doping ai suoi tempi, come molti, compreso Ferruccio, hanno sostenuto?
«Le cose sono vere. Io ad un certo punto cominciai ad avere, in campo, dei fortissimi giramenti di testa. Andai dal medico che mi fece fare tutte le analisi e mi disse che dovevo fermarmi, che avevo problemi grossi. Mi disse che dovevo stare fuori almeno sei mesi. Ma questo Herrera non lo voleva. Da dove nascevano quei valori sballati? Non lo so. Ma so che, prima della partita, ci davano sempre un caffè. Non so cosa ci fosse dentro. Ricordo che un mio compagno, Szymaniak, mi chiese se prendevo la simpamina. Io non sapevo cosa fosse ma qualcosa che non andava, qualcosa di strano, c’era».





che schifo








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10/11/2015 13:22
 
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Il vero problema è che oggi si dopano come peggio di prima (vedasi i casi di attaccanti che arrivano a 38 anni ad altissimi livelli nonostante infortuni gravissimi... semplicemente quelli che prima erano dei maghi che davano caffè ora sono dei medici che sanno benissimo come dosare e somministrare gli ormoni, soprattutto quando ci sono infortuni con tempi lunghi di recupero)

Ed è odioso sentire che i giovani atleti sono i primi a cercare le scorciatoie per arrivare prima in alto.










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