La verità non può essere infoibata

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fabreezer
00giovedì 10 febbraio 2011 10:49
10 FEBBRAIO





Norma Cossetto, ventenne italiana fissata ad un tavolo con delle corde e violentata da diciassette comunisti, per poi essere pugnalata al seno con un legno conficcato in vagina e gettata, infine, nelle foibe ancora sanguinante.

È diventata, suo malgrado, il simbolo degli ‘infoibati‘.

Era una ragazza di 24 anni di S. Domenico di Visinada, laureanda in lettere e filosofia presso l’università di Padova.
In quel periodo girava in bicicletta per i comuni dell’Istria per preparare il materiale per la sua tesi di laurea, che aveva per titolo “L’Istria Rossa” (Terra rossa per la bauxite).

Il 25 settembre 1943 un gruppo di partigiani irruppe in casa Cossetto razziando ogni cosa (espropriazione proletaria).
Entrarono perfino nelle camere, sparando sopra i letti per spaventare le persone.
Il giorno successivo prelevarono Norma.
Venne condotta prima nella ex caserma dei Carabinieri di Visignano dove i capibanda si divertirono a tormentarla, promettendole libertà e mansioni direttive, se avesse accettato di collaborare e di aggregarsi alle loro imprese.

Al netto rifiuto, la rinchiusero nella ex caserma della Guardia di Finanza a Parenzo assieme ad altri parenti, conoscenti ed amici tra i quali Eugenio Cossetto, Antonio Posar, Antonio Ferrarin, Ada Riosa vedova Mechis in Sciortino, Maria Valenti, Umberto Zotter ed altri, tutti di San Domenico, Castellier, Ghedda, Villanova e Parenzo.
Dopo una sosta di un paio di giorni, vennero tutti trasferiti durante la notte e trasportati con un camion nella scuola di Antignana, dove Norma iniziò il suo vero martirio.

Fissata ad un tavolo con alcune corde, venne violentata da diciassette aguzzini, ubriachi e esaltati, quindi gettata nuda nella foiba poco distante, sulla catasta degli altri cadaveri degli istriani.
Una signora di Antignana che abitava di fronte, sentendo dal primo pomeriggio gemiti e lamenti, verso sera, appena buio, osò avvicinarsi alle imposte socchiuse. Vide la ragazza legata al tavolo e la udí, distintamente, invocare la mamma e chiedere da bere per pietà…
(Tralascio per pudore e carità cristiana di descrivere i tormenti cui fu sottoposta, ma posso dire che furono tra i più bestiali di cui io sia a conoscenza).

Il 13 ottobre 1943 a S. Domenico ritornarono i tedeschi i quali, su richiesta di Licia, sorella di Norma, catturarono alcuni partigiani che raccontarono la sua tragica fine e quella di suo padre.
Il 10 dicembre 1943 i Vigili del fuoco di Pola, al comando del maresciallo Harzarich, ricuperarono la sua salma: era caduta supina, nuda, con le braccia legate con il filo di ferro, su un cumulo di altri cadaveri aggrovigliati; aveva ambedue i seni pugnalati ed altre parti del corpo sfregiate. Emanuele Cossetto, che identificò la nipote Norma, riconobbe sul suo corpo varie ferite d’arme da taglio; altrettanto riscontrò sui cadaveri degli altri. Norma aveva le mani legate in avanti, mentre alle altre vittime erano state legate dietro.

Da prigionieri partigiani, presi in seguito da militari italiani istriani, si seppe che Norma, durante la prigionia venne violentata da molti.
Un’altra deposizione aggiunge i seguenti particolari: “Cossetto Norma, rinchiusa da partigiani nella ex caserma dei Carabinieri di Antignana, fu fissata ad un tavolo con legature alle mani e ai piedi e violentata per tutta la notte da diciassette aguzzini. Venne poi gettata nella e foiba… (N.d.R.: segue la descrizione delle torture) …

…La salma di Norma fu composta nella piccola cappella mortuaria del cimitero di Castellerier.
Dei suoi diciassette torturatori, sei furono arrestati e obbligati a passare l’ultima notte della loro vita nella cappella mortuaria del locale cimitero per vegliare la salma, composta al centro, alla luce tremolante di due ceri, nel fetore acre della decomposizione di quel corpo che essi avevano seviziato sessantasette giorni prima, nell’attesa angosciosa della morte certa.

Soli, con la loro vittima, con il peso enorme dei loro rimorsi, tre impazzirono e all’alba caddero con gli altri, fucilati a colpi di mitra …“

Il 22-12-2005, dopo 50 anni di totale oblio da parte dello Stato, il presidente Ciampi ha concesso una medaglia d’oro per merito civile alla ragazza istriana barbaramente trucidata dai titini.

Quando la prossima volta vi sentirete raccontare che le foibe sono una favola o che comunque non meritano attenzione trattandosi di esecuzioni di ‘gente di destra‘, quindi ‘giuste e comprensibili‘, ricordatevi di Norma e state in guardia: chi vi sta dicendo questo, sta massacrando ancora una volta Norma e tutti gli sventurati che hanno avuto il suo destino.



Foiba di Vines - Recuperate dal Maresciallo Harzarich dal 16.10.1943 al 25.10.1943 cinquantuno salme riconosciute. In questa Foiba, sul cui fondo scorre dell'acqua, gli assassinati dopo essere stati torturati, finirono precipitati con una p...ietra legata con un filo di ferro alle mani. Furono poi lanciate delle bombe a mano nell'interno. Unico superstite, Giovanni Radeticchio, ha raccontato il fatto.

Riuscì a sopravvivere Giovanni Radeticchio di Sisano.
Ecco il suo racconto: "Addì 2 maggio 1945, Giulio Premate accompagnato da altri quattro armati venne a prelevarmi a casa mia con un camioncino sul quale erano già i tre fratelli Alessandro, Francesco e Giuseppe Frezza nonché Giuseppe Benci. Giungemmo stanchi ed affamati a Pozzo Littorio dove ci aspettava una mostruosa accoglienza; piegati e con la testa all’ingiù fecero correre contro il muro Borsi, Cossi e Ferrarin. Caduti a terra dallo stordimento vennero presi a calci in tutte le parti del corpo finché rinvennero e poi ripetevano il macabro spettacolo. Chiamati dalla prigionia al comando, venivano picchiati da ragazzi armati di pezzi di legno.

Alla sera, prima di proseguire per Fianona, dopo trenta ore di digiuno, ci diedero un piatto di minestra con pasta nera non condita. Anche questo tratto di strada a piedi e per giunta legati col filo di ferro ai polsi due a due, così stretti da farci gonfiare le mani ed urlare dai dolori. Non ci picchiavano perché era buio.

Ad un certo momento della notte vennero a prelevarci uno ad uno per portarci nella camera della torture. Ero l'ultimo ad essere martoriato: udivo i colpi che davano ai miei compagni di sventura e le urla di strazio di questi ultimi. Venne il mio turno: mi spogliarono, rinforzarono la legatura ai polsi e poi, giù botte da orbi. Cinque manigoldi contro di me, inerme e legato, fra questi una femmina. Uno mi dava pedate, un secondo mi picchiava col filo di ferro attorcigliato, un terzo con un pezzo di legno, un quarto con pugni, la femmina mi picchiava con una cinghia di cuoio.

Prima dell'alba mi legarono con le mani dietro la schiena ed in fila indiana, assieme a Carlo Radolovich di Marzana, Natale Mazzucca da Pinesi (Marzana), Felice Cossi da Sisano, Graziano Udovisi da Pola, Giuseppe Sabatti da Visinada, mi condussero fino all'imboccatura della Foiba. Per strada ci picchiavano col calcio e colla canna del moschetto. Arrivati al posto del supplizio ci levarono quanto loro sembrava ancora utile. A me levarono le calze (le scarpe me le avevano già prese un paio di giorni prima), il fazzoletto da naso e la cinghia dei pantaloni. Mi appesero un grosso sasso, del peso di circa dieci chilogrammi, per mezzo di filo di ferro ai polsi già legati con altro filo di ferro e mi costrinsero ad andare da solo dietro Lidovisi, già sceso nella Foiba. Dopo qualche istante mi spararono qualche colpo di moschetto. Dio volle che colpissero il filo di ferro che fece cadere il sasso. Così caddi illeso nell'acqua della Foiba. Nuotando, con le mani legate dietro la schiena, ho potuto arenarmi. Intanto continuavano a cadere gli altri miei compagni e dietro ad ognuno sparavano colpi di mitra. Dopo l'ultima vittima, gettarono una bomba a mano per finirci tutti. Costernato dal dolore non reggevo più.

Sono riuscito a rompere il filo di ferro che mi serrava i polsi, straziando contemporaneamente le mie carni,poiché i polsi cedettero prima del filo di ferro. Rimasi così nella Foiba per un paio di ore. Poi, col favore della notte, uscii da quella che doveva essere la mia tomba"



Le foibe del Monte Maggiore

Durante l'occupazione del litorale istriano da parte delle bande slavo-titine, nel settembre del 1943, vissi a Laurana giorni terribili.

Eravamo in preda alla disperazione, poichè, accanto all'angoscia per la nostr...a sorte che ci torturava ora dopo ora, ci giungevano da ogni parte le notizie più orripilanti. A Laurana (ove vissi dal febbraio del 1936 al dicembre 1943) come ad Abbazia, ad Icici, ad Ica, a Medea, continuava la sequela dei "ricercati", dei "prelevati", dei "torturati" e degli "infoibati". Papà era stato condannato da un "tribunale del popolo" al martirio delle "foibe" perchè "italiano" e direttore dell'Ufficio Postale, e per questo tutta la mia famiglia trovò un rifugio sicuro in una villa vicina alla nostra, presso la professoressa Vescovich che salvò la nostra vita, mettendo a rischio la propria. Non c'era giorno che non prelevassero da Laurana o da altre frazioni vicine qualche italiano. Dopo averli sottoposti ad un doloroso e lungo tragitto a piedi nudi, essi venivano torturati, uccisi e, poi, gettati negli anfratti del Monte Maggiore.

Il Monte Maggiore (oggi ribattezzato Ucka) è il più alto monte dell'Istria; il terzo o il quarto in ordine di altezza di qulli che segnano il confine della Liburnia, che partendo dalla valle di Fianona, ridiscende al mare nella Forra di Polvilje. Dall'ex Rifugio Duchessa d'Aosta (a 922 metri) potei più volte ammirare l'intero "Golfo del Quarnaro". "Villa Carlotta" - la mia abitazione - si adagiava sulle colline che fanno da cuscinetto alla montagna istriana sulla quale vivevano, secondo un'antica leggenda raccontata dai pescatori del luogo, alcune famiglie di stregoni. Essi accendevano grandi falò sulle pendici e nelle caverne; così la terra, dolorante e indispettita per le scottature, cominciava ad agitarsi e muoveva venti violentissimi che provocavano forti tempeste e uragani. Ben altri stregoni albergavano sul Monte Maggiore nel settembre del 1943! Ben altri fuochi! L'uragano dell'odio etnico si scatenò sugli italiani inermi e innocenti con inaudita efferatezza.

Nei giorni successivi all'8 settembre, perdurando l'occupazione e le persecuzioni dei partigiani slavi, erano assai rari i contadini che scendevano dalle loro piccole borgate di collina per allestire il consueto "mercatino". Era fame! Mi sentivo rabbrividire quando essi mi raccontavano quello che avevano visto lungo i pendii del Monte Maggiore. Un mio compagno di scuola - un certo Bernecich che abitava in un casolare sperduto e che amava passeggiare con me nei fitti boschi - mi raggiunse nel giardino di "Villa Carlotta" e mi disse: "Carlo, questa mattina ho visto salire in alto tre uomini, legati tra loro da una fune, costretti a camminare a piedi nudi, di continuo bastonati. Poi, d'improvviso, li vidi scomparire uno ad uno, gettati in un burrone profondo moltissimi metri". Solo dopo la guerra imparai a chiamare col nome di foibe quegli enormi baratri, fattisi oggi nella nostra memoria altrettanti simulacri.

Un giorno volli spingermi al di là delle "terre rosse" (un terreno scarlatto, estremamente friabile e morbido, simile alla sabbia). Due boscaioli mi invitarono a fare ritorno in paese; e, indicandomi la vetta del Monte Maggiore, mi dissero: "Vedi, lassù... In questi busi ne buttano giù ogni giorno; se ci sentono parlare italiano, i ne butta dentro anche noi senza discuter". Un altro contadino, intento a zappare la terra, mi disse: "Qui passano i partigiani spingendo verso l'alto della montagna alcune persone prelevate nelle zone vicine, a Laurana, ad Abbazia e a Fiume".

"Avanti fogne italiane; quando saremo di sopra, vi faremo un bel regalo".

Erano i primi martiri di un olocausto che continuerà: Amministratori pubblici, dirigenti, insegnanti, podestà, avvocati, postini, farmacisti, commercianti ecc. e non solo i responsabili del P.N.F.

Quando mi recavo nell'orto di casa, a ridosso delle colline, pensavo all'ultima frase di un partigiano titino che era venuto con un folto gruppo di "compagni" a prelevare papà (salvato per l'intervento del suo fattorino, Rudi, un buon croato, amico dell'Italia e affezionato a noi): "Torneremo, si prepari...". In quegli attimi di disperazione, maledivo quella montagna divenuta nella mia immaginazione un vasto cratere infernale. Pregavo intensamente Iddio che preservasse papà da chissà quali pene.

Mio padre potè fuggire a Fiume a bordo di un bragozzo, travestito da pescatore, con l'aiuto di due portalettere croati che vollero testimoniargli tutto il loro affetto. Noi lo seguiremo tre mesi dopo, esuli disperati.

Fummo salvi per grazia di Dio! Arrivarono i tedeschi, una lunga colonna di carri armati, cannoni, autoblinde con mitragliere, cavalli bellissimi sui quali troneggiavano elegantissimi ufficiali in alta uniforme. Erano i nuovi padroni di casa che portavano a termine una complessa operazione militare denominata "Wolkenbruh". Anche se ciò stride con la nostra coscienza, essi di fatto furono i nostri attesi "liberatori".

Poi venne l'ora dolorosa della "sradicazione", stranieri in patria ed esuli da quella terra tanto amata, per il Veneto, tra l'indifferenza e il rifiuto di tanti concittadini.

Fui profugo a Venezia, e partecipai alle manifestazioni per Trieste italiana negli anni '46 e '47 in Piazza San Marco, quando i partigiani comunisti impedivano con la violenza che noi gridassimo "W Trieste Italiana!" All'indirizzo del Patriarca Cardinale Piazza - che parlava dal pulpito di Piazzetta S. Marco - urlavano "Scendi giù, hai le mani sporche di sangue!".

Questa era il clima. Ed io, insieme ai miei compagni della Lega Nazionale di Trieste e del Comitato Giuliano Dalmata - che aveva già la sua sede sopra la Biblioteca "Marciana" dove ci incontravamo - gridavamo in faccia ai partigiani comunisti: "Foibe! foibe!". Essi negavano tutto, e reagivano con spranghe di ferro e bulloni. Mi ruppero le spalle, mi sputarono in faccia e mi rubarono il cappotto. "Balle! Balle!" - ci dicevano gli "arsenalotti" comunisti -, "Viva Tito! Viva Stalin!".

Nello stesso giorno della mia partenza da Laurana, mi avviai verso i viottoli alti sotto la vetta del Monte Maggiore.

Ma quel giorno anche il vento del Monte Maggiore piangeva! Scavai una manciata di terra tra i sassi e l'erbe di montagna e la misi con devozione tra le pieghe di una bandiera tricolore che nelle ricorrenze nazionali issavamo dalla balaustra di fronte al Quarnaro: Terra del Monte Maggiore! Terra Istriana! Terra d'Italia!



Salvo per miracolo
(testimonianza di Graziano Udovisi)

Mi fecero marciare sulle sterpaglie a piedi nudi, legato col filo di ferro ad un amico che dopo pochi passi svenne e così io, camminando, me lo trascinavo dietro. Poi una voce in slavo gr...idò: "Alt!". Abbassai lo sguardo e la vidi: una fessura profonda nel terreno, come un enorme inghiottitoio. Ero sull'orlo di una foiba. Allora tutto fu chiaro: ara arrivato il momento di morire.

Tutto è incominciato il 5 maggio 1945. La guerra è finita, depongo le armi e mo consegno prigioniero al comando slavo. Vengo deportato in un campo di concentramento vicino Pola. Prima della tragedia c'è l'umiliazione: i partigiani di Tito si divertono a farmi mangiare pezzi di carta ed ingoiare dei sassi. Poi mi sparano qualche colpo all'orecchio. Io sobbalzo impaurito, loro sghignazzano.
Insieme ad altri compagni finisco a Pozzo Vittoria, nell'ex palestra della scuola. Alcuni di noi sono costretti a lanciarsi di corsa contro il muro. Cadono a terra con la testa sanguinante. I croati li fanno rialzare a suon di calci. A me tocca in sorte un castigo diverso: una bastonata terrificante sull'orecchio sinistro. E da quel giorno non ci sento quasi più.

Eccoci a Fianona. Notte alta. Questa volta ci hanno rinchiuso in un ex caserma. Venti persone in una stanza di tre metri per quattro. Per picchiarci ci trasferiscono in una stanza più grande dove un uomo gigantesco comincia a pestarmi. "Maledetti in piedi! " strilla l'Ercole slavo. Vedo entrare due divise e in una delle due c'è una donna. Poi giro lo sguardo sui i miei compagni: hanno la schiena che sembra dipinta di rosso e invece è sangue che sgorga. "Avanti il più alto", grida il gigante e mo prende per i capelli trascinandomi davanti alla donna. Lei estrae con calma la pistola e col calcio dell'arma mi spacca la mascella. Poi prende il filo di ferro e lo stringe attorno ai nostri polsi legandoci a due a due. Ci fanno uscire. Comincia la marcia verso la foiba.

Il destino era segnato ed avevo solo un modo per sfuggirgli: gettarmi nella voragine prima di essere colpito da un proiettile. Una voce urla in slavo "Morte al fascismo, libertà ai popoli!", uno slogano che ripetono ad ogni piè sospinto. Io, appena sento l crepitio dei mitra mi tuffo dentro la foiba.

Ero precipitato sopra un alberello sporgente. Non vedevo nulla, i cadaveri mi cascavano addosso. Riuscii a liberare le mani dal filo di ferro e cominciai a risalire. Non respiravo più. All'improvviso le mie dita afferrano una zolla d'erba. Guardo meglio: sono capelli! Li afferro e così riesco a trascinare in superficie anche un altro uomo. L'unico italiano, ad essere sopravvissuto alle foibe. Si chiamava Giovanni, "Ninni" per gli amici. È morto in Australia qualche anno fa.

a sorte che ci torturava ora dopo ora, ci giungevano da ogni parte le notizie più orripilanti. A Laurana (ove vissi dal febbraio del 1936 al dicembre 1943) come ad Abbazia, ad Icici, ad Ica, a Medea, continuava la sequela dei "ricercati", dei "prelevati", dei "torturati" e degli "infoibati". Papà era stato condannato da un "tribunale del popolo" al martirio delle "foibe" perchè "italiano" e direttore dell'Ufficio Postale, e per questo tutta la mia famiglia trovò un rifugio sicuro in una villa vicina alla nostra, presso la professoressa Vescovich che salvò la nostra vita, mettendo a rischio la propria. Non c'era giorno che non prelevassero da Laurana o da altre frazioni vicine qualche italiano. Dopo averli sottoposti ad un doloroso e lungo tragitto a piedi nudi, essi venivano torturati, uccisi e, poi, gettati negli anfratti del Monte Maggiore.

Il Monte Maggiore (oggi ribattezzato Ucka) è il più alto monte dell'Istria; il terzo o il quarto in ordine di altezza di qulli che segnano il confine della Liburnia, che partendo dalla valle di Fianona, ridiscende al mare nella Forra di Polvilje. Dall'ex Rifugio Duchessa d'Aosta (a 922 metri) potei più volte ammirare l'intero "Golfo del Quarnaro". "Villa Carlotta" - la mia abitazione - si adagiava sulle colline che fanno da cuscinetto alla montagna istriana sulla quale vivevano, secondo un'antica leggenda raccontata dai pescatori del luogo, alcune famiglie di stregoni. Essi accendevano grandi falò sulle pendici e nelle caverne; così la terra, dolorante e indispettita per le scottature, cominciava ad agitarsi e muoveva venti violentissimi che provocavano forti tempeste e uragani. Ben altri stregoni albergavano sul Monte Maggiore nel settembre del 1943! Ben altri fuochi! L'uragano dell'odio etnico si scatenò sugli italiani inermi e innocenti con inaudita efferatezza.

Nei giorni successivi all'8 settembre, perdurando l'occupazione e le persecuzioni dei partigiani slavi, erano assai rari i contadini che scendevano dalle loro piccole borgate di collina per allestire il consueto "mercatino". Era fame! Mi sentivo rabbrividire quando essi mi raccontavano quello che avevano visto lungo i pendii del Monte Maggiore. Un mio compagno di scuola - un certo Bernecich che abitava in un casolare sperduto e che amava passeggiare con me nei fitti boschi - mi raggiunse nel giardino di "Villa Carlotta" e mi disse: "Carlo, questa mattina ho visto salire in alto tre uomini, legati tra loro da una fune, costretti a camminare a piedi nudi, di continuo bastonati. Poi, d'improvviso, li vidi scomparire uno ad uno, gettati in un burrone profondo moltissimi metri". Solo dopo la guerra imparai a chiamare col nome di foibe quegli enormi baratri, fattisi oggi nella nostra memoria altrettanti simulacri.

Un giorno volli spingermi al di là delle "terre rosse" (un terreno scarlatto, estremamente friabile e morbido, simile alla sabbia). Due boscaioli mi invitarono a fare ritorno in paese; e, indicandomi la vetta del Monte Maggiore, mi dissero: "Vedi, lassù... In questi busi ne buttano giù ogni giorno; se ci sentono parlare italiano, i ne butta dentro anche noi senza discuter". Un altro contadino, intento a zappare la terra, mi disse: "Qui passano i partigiani spingendo verso l'alto della montagna alcune persone prelevate nelle zone vicine, a Laurana, ad Abbazia e a Fiume".

"Avanti fogne italiane; quando saremo di sopra, vi faremo un bel regalo".

Erano i primi martiri di un olocausto che continuerà: Amministratori pubblici, dirigenti, insegnanti, podestà, avvocati, postini, farmacisti, commercianti ecc. e non solo i responsabili del P.N.F.

Quando mi recavo nell'orto di casa, a ridosso delle colline, pensavo all'ultima frase di un partigiano titino che era venuto con un folto gruppo di "compagni" a prelevare papà (salvato per l'intervento del suo fattorino, Rudi, un buon croato, amico dell'Italia e affezionato a noi): "Torneremo, si prepari...". In quegli attimi di disperazione, maledivo quella montagna divenuta nella mia immaginazione un vasto cratere infernale. Pregavo intensamente Iddio che preservasse papà da chissà quali pene.

Mio padre potè fuggire a Fiume a bordo di un bragozzo, travestito da pescatore, con l'aiuto di due portalettere croati che vollero testimoniargli tutto il loro affetto. Noi lo seguiremo tre mesi dopo, esuli disperati.

Fummo salvi per grazia di Dio! Arrivarono i tedeschi, una lunga colonna di carri armati, cannoni, autoblinde con mitragliere, cavalli bellissimi sui quali troneggiavano elegantissimi ufficiali in alta uniforme. Erano i nuovi padroni di casa che portavano a termine una complessa operazione militare denominata "Wolkenbruh". Anche se ciò stride con la nostra coscienza, essi di fatto furono i nostri attesi "liberatori".

Poi venne l'ora dolorosa della "sradicazione", stranieri in patria ed esuli da quella terra tanto amata, per il Veneto, tra l'indifferenza e il rifiuto di tanti concittadini.

Fui profugo a Venezia, e partecipai alle manifestazioni per Trieste italiana negli anni '46 e '47 in Piazza San Marco, quando i partigiani comunisti impedivano con la violenza che noi gridassimo "W Trieste Italiana!" All'indirizzo del Patriarca Cardinale Piazza - che parlava dal pulpito di Piazzetta S. Marco - urlavano "Scendi giù, hai le mani sporche di sangue!".

Questa era il clima. Ed io, insieme ai miei compagni della Lega Nazionale di Trieste e del Comitato Giuliano Dalmata - che aveva già la sua sede sopra la Biblioteca "Marciana" dove ci incontravamo - gridavamo in faccia ai partigiani comunisti: "Foibe! foibe!". Essi negavano tutto, e reagivano con spranghe di ferro e bulloni. Mi ruppero le spalle, mi sputarono in faccia e mi rubarono il cappotto. "Balle! Balle!" - ci dicevano gli "arsenalotti" comunisti -, "Viva Tito! Viva Stalin!".

Nello stesso giorno della mia partenza da Laurana, mi avviai verso i viottoli alti sotto la vetta del Monte Maggiore.

Ma quel giorno anche il vento del Monte Maggiore piangeva! Scavai una manciata di terra tra i sassi e l'erbe di montagna e la misi con devozione tra le pieghe di una bandiera tricolore che nelle ricorrenze nazionali issavamo dalla balaustra di fronte al Quarnaro: Terra del Monte Maggiore! Terra Istriana! Terra d'Italia!



TESTIMONIANZA di Annamaria Muiesan

Ora non sarà più consentito alla Storia di smarrire l’altra metà della Memoria. I nostri deportati, infoibati, fucilati, annegati o lasciati morire di stenti e malattie nei campi di concentramento jugoslavi..., non sono più morti di serie B.

Ieri l’altro, 8 febbraio, al Quirinale, nel corso di una cerimonia vibrante e commovente, il Presidente della Repubblica ha conferito a noi familiari delle vittime una decorazione alla loro memoria . “La Repubblica Italiana ricorda Domenico Muiesan/1945” è inciso sulla mia medaglia, piccola nella forma, grande nel significato. La Patria comincia a prendere coscienza di una realtà che per oltre sessant’anni è stata dimenticata, stravolta o silenziata. Manca ancora uno sforzo condiviso per stabilire le responsabilità di quel dramma dovuto certo alla ferocia dei titini jugoslavi, ma nel quale i comunisti italiani locali hanno svolto una parte non marginale.

Oggi, in occasione della “Giornata del Ricordo” ci viene chiesta una testimonianza per non dimenticare. Vivessi cent’anni non potrei mai liberarmi da quei ricordi dolorosi.

Sto ancora male al ricordo della notte del sequestro di mio padre, delle accuse tremende che gli gridano in faccia i gappisti piranesi, fazzoletto rosso e mitra spianato.

Sto male al ricordo del breve ritorno con mia madre a Pirano nell’inutile tentativo d’incontrarlo , dei manifesti infamanti affissi per le strade, delle parole del parroco Don Malusà: “No signora xe mejo che no la lo veda”, a sottolineare, lui che i prigionieri li può visitare, Dio sa quali conseguenze per i maltrattamenti subiti.

Sto male al pensiero del fabbro che forza la porta del nostro appartamento, a Pirano; degli uomini armati che profanano quelle amate stanze, quelle amate vecchie cose razziate e caricate su un carro già in attesa in contrada.

Sto male al ricordo delle lunghe notti insonni di Trieste nell’alloggio di via Guido Reni devastato dalle bombe nelle brande fradice dell’ECA, della pioggia che gocciola nei barattoli sistemati qua e là.

Sto male al pensiero di mamma che incurante del pericolo , testardamente percorre con altre la sterminata Jugoslavia nella speranza, nascosta nell’erba alta o fra le stoppie, di riconoscere tra i tanti volti emaciati e barbuti dei prigionieri dei campi, quello del suo caro.

44 furono i cittadini di Pirano e dintorni fatti scomparire dalla faccia della terra. La maggior parte fra il maggio e il giugno ’45. e questo quando a Pirano comandavano non i titini, come ancora oggi si vorrebbe fare credere, ma i comunisti del posto che alla fine delle ostilità s’erano insediati al Comune e s’imponevano sul C.L.N. E comunisti italiani erano i gappisti che non aveva riconsegnato le armi per continuare la loro rivoluzione, mandati di notte di casa in casa a sequestrare i “nemici del popolo”. Comunisti italiani quelli che dileggiavano i prigionieri in piazza, quelli che sorvegliavano le carceri, quelli che sovrintendevano agli interrogatori, finchè finirono nelle mani dei titini che ne fecero scempio.

Di mio padre, dunque, quasi tutto si sa sul sequestro, sulla prigionia, sulle sevizie, sui dileggi diurni e sugli interrogatori notturni, e sono anche noti i nomi degli aguzzini. Ma a quasi sessantun anni da quei dolorosi eventi, sul come e dove egli abbia immolato la sua vita, nonostante le tante ipotesi e congetture sollevate, ancora nulla si sa di preciso. Ed è d’altra parte inutile che in tanti si affannino a correre a Lubiana a spulciare negli archivi aperti da poco: tutti sanno che negli archivi si trova quello che si vuol far trovare.

Mio padre dunque resterà per sempre senza sepolcro. E senza un fiore.

Esiste una sola, unica e incontrovertibile certezza: se nei nostri paesi non ci fossero stati quei piccoli comunisti italiani assetati di potere e animati di odio ideologico e di spirito di vendetta, e non avessero messo in atto una caccia spietata ai loro nemici storici, indifferente se buoni o cattivi, oggi noi tutti piangeremmo un numero assai meno elevato di scomparsi.

Ed è questo che nella Giornata del Ricordo si deve dire a chi ancora non sa.

La banda «Manni», che agisce più a sud, sul momento non viene toccata, ma dopo alcune azioni di disturbo, i tedeschi assaltano il Monte San Pancrazio, catturano una decina di uomini e li fucilano.
Da Roma, la dirigenza del Pci, preoccupata ...dello sbandamento delle sue formazioni più agguerrite, invia nel Reatino un alto dirigente, Aladino Bibolotti, che si incontra con il nuovo comandante della «Gramsci», Alfredo Filipponi.

L'ordine è: morte alle spie fasciste, sono loro i colpevoli, devono pagare.
E da quel giorno si scatena la caccia all'uomo.
Dal 18 aprile il martoriato confine fra il Ternano e il Reatino si trasforma in un «triangolo della morte» che i testi sulla guerra civile per lo più ignorano.
Isolati, respinti anche dalla popolazione, che addossa loro la responsabilità dei rastrellamenti, i partigiani si vendicano.
Squadre della morte prelevano le persone e uccidono abbandonandosi ad atti di estrema ferocia.
Configni, Vasciano di Stroncone, Morro Reatino, Miranda di Terni, Casteldilago, Monterivoso di Ferentillo: sono i luoghi dove regna il terrore.

Jolanda Dobrilla in quei giorni è dai Papucci dove ricambia l'ospitalità sbrigando le faccende domestiche.
Ma ha il chiodo fisso di tornare a casa sua, e chiede passaggi ai reparti tedeschi che si spostano verso nord.
Sarà questo, oltre al fatto che parla il tedesco, a segnare la sua condanna.
La prelevano il 23 aprile 1944, il Papucci e un ragazzo di Configni con cui nel frattempo si è fidanzata, cercano invano di difenderla.
Gli uomini della «Manni» trascinano Jolanda verso la località di Finocchieto di Stroncone, dove si perdono per sempre le sue tracce.
Il capo del provincia di Rieti invia sul luogo il giovane milite della Gnr Primo De Luca, con il compito di rintracciare la ragazza.
Saranno i pastori dei Prati di Sotto di Cottanello, una località deserta, segnata dai fumi delle carbonaie, a dare all'uomo la conferma: Jolanda Dobrilla, sedici anni e otto mesi, è stata fatta saltare in aria, le hanno tirato addosso una bomba a mano del tipo «Balilla».
Poi hanno bruciato il corpo in una carbonaia.

De Luca riferisce tutto ai carabinieri di Configni ma non riesce a tornare
al suo comando.
Prelevato anche lui da due uomini della «Manni», viene portato verso
Vasciano di Stroncone.
Lì in località Le Ville, presso un fontanile, un vecchio contadino di Vasciano, Romeo Nazzareno Feriani, lo vede in mezzo ai partigiani e ingenuamente protesta: «Ma che cosa fate? Dai, lasciatelo andare, è un ragazzo».
Una revolverata gli chiude per sempre la bocca.
Poi tocca a De Luca, ucciso con una raffica di mitra alle spalle davanti al muro del cimitero di Vasciano.

Il 13 giugno 1944 gli Alleati sfondano il fronte italo-tedesco: la guerra
per la gente del Reatino è finita, meglio dimenticare.
Ma non dimentica il testardo maresciallo dei carabinieri di Configni, Angelo Fregoli, che nel giugno del 1947 indaga fra i pastori di Finocchieto di Stroncone e ricostruisce la fine di Jolanda Dobrilla, Primo De Luca e Romeo Nazzareno Feriani, su incarico del giudice istruttore del tribunale di Terni.

Gli ex partigiani della banda «Manni» Luigi Menichelli e Francesco Marasco
sono ritenuti colpevoli dell'uccisione di Dobrilla, Egisto Bartolucci e
Francesco Marasco sono invece gli assassini di De Luca e Feriani.
Li inchiodano le testimonianze dei pastori del luogo che hanno anche ritrovato i resti carbonizzati del corpo della ragazza e visto i maiali affamati che ne rosicchiavano le ossa.
Ma il 21 novembre 1950 la sezione istruttoria presso la Corte d'appello di Roma, presieduta da Alessandro Varallo, li assolve perché quelli che hanno compiuto sono da considerarsi «atti di guerra».

Solo pochi anni fa i fratelli superstiti di Jolanda hanno saputo la verità sulla fine della sorella.
Nessuno, neppure i magistrati, si premurò di informare la famiglia durante l'istruttoria...
wholly
00giovedì 10 febbraio 2011 11:06
Una delle molte pagine terribili della storia dell'umanità.

Purtroppo cose simili sono accadute negli stessi luoghi anche fino a pochi anni fa... e continuano ad accadere in varie parti del mondo.

Giusto ricordare se serve a smuovere le coscienze per il futuro.

superpeppe84
00giovedì 10 febbraio 2011 11:08
Re:
fabreezer, 10/02/2011 10.49:

10 FEBBRAIO


Norma Cossetto, ventenne italiana fissata ad un tavolo con delle corde e violentata da diciassette comunisti, per poi essere pugnalata al seno con un legno conficcato in vagina e gettata, infine, nelle foibe ancora sanguinante.







La mia lettura si è interrotta qui. Mi è sufficiente per capire che quello che hai postato è qualcosa di tendenzioso e strumentalizzato, ben lontano dall'essere un testo mirato a ricordare le vittime di questa terribile pagina di storia a cui va tutto il mio rispetto.
Bartdream
00giovedì 10 febbraio 2011 11:24
Proprio come le torture tedesche, anche queste meno note devono essere note.
Non mi interessa da che fazione provengono.
Pagine tristi della brutalità umana.
fabreezer
00giovedì 10 febbraio 2011 11:49
Re: Re:
superpeppe84, 10/02/2011 11.08:



La mia lettura si è interrotta qui. Mi è sufficiente per capire che quello che hai postato è qualcosa di tendenzioso e strumentalizzato, ben lontano dall'essere un testo mirato a ricordare le vittime di questa terribile pagina di storia a cui va tutto il mio rispetto.




Ho copiato ed incollato diversi racconti, molti dei quali presi da siti.
Quello che hai quotato tu era un commento preso da facebook e fatto da una persona e, quindi, può risultare "di parte".
Anche se, di certo, le truppe di Tito erano tutto fuorché fasciste...


Forse ti piacerà questa versione, impersonale, che non punta il dito, che lascia intendere...
Perdonali se hanno scritto "partigiani".


È diventata, suo malgrado, il simbolo degli ‘infoibati‘.

Era una ragazza di 24 anni di S. Domenico di Visinada, laureanda in lettere e filosofia presso l’università di Padova.
In quel periodo girava in bicicletta per i comuni dell’Istria per preparare il materiale per la sua tesi di laurea, che aveva per titolo “L’Istria Rossa” (Terra rossa per la bauxite).

Il 25 settembre 1943 un gruppo di partigiani irruppe in casa Cossetto razziando ogni cosa (espropriazione proletaria).
Entrarono perfino nelle camere, sparando sopra i letti per spaventare le persone.
Il giorno successivo prelevarono Norma.
Venne condotta prima nella ex caserma dei Carabinieri di Visignano dove i capibanda si divertirono a tormentarla, promettendole libertà e mansioni direttive, se avesse accettato di collaborare e di aggregarsi alle loro imprese.

Al netto rifiuto, la rinchiusero nella ex caserma della Guardia di Finanza a Parenzo assieme ad altri parenti, conoscenti ed amici tra i quali Eugenio Cossetto, Antonio Posar, Antonio Ferrarin, Ada Riosa vedova Mechis in Sciortino, Maria Valenti, Umberto Zotter ed altri, tutti di San Domenico, Castellier, Ghedda, Villanova e Parenzo.
Dopo una sosta di un paio di giorni, vennero tutti trasferiti durante la notte e trasportati con un camion nella scuola di Antignana, dove Norma iniziò il suo vero martirio.

Fissata ad un tavolo con alcune corde, venne violentata da diciassette aguzzini, ubriachi e esaltati, quindi gettata nuda nella foiba poco distante, sulla catasta degli altri cadaveri degli istriani.
Una signora di Antignana che abitava di fronte, sentendo dal primo pomeriggio gemiti e lamenti, verso sera, appena buio, osò avvicinarsi alle imposte socchiuse. Vide la ragazza legata al tavolo e la udí, distintamente, invocare la mamma e chiedere da bere per pietà…
(Tralascio per pudore e carità cristiana di descrivere i tormenti cui fu sottoposta, ma posso dire che furono tra i più bestiali di cui io sia a conoscenza).

Il 13 ottobre 1943 a S. Domenico ritornarono i tedeschi i quali, su richiesta di Licia, sorella di Norma, catturarono alcuni partigiani che raccontarono la sua tragica fine e quella di suo padre.
Il 10 dicembre 1943 i Vigili del fuoco di Pola, al comando del maresciallo Harzarich, ricuperarono la sua salma: era caduta supina, nuda, con le braccia legate con il filo di ferro, su un cumulo di altri cadaveri aggrovigliati; aveva ambedue i seni pugnalati ed altre parti del corpo sfregiate. Emanuele Cossetto, che identificò la nipote Norma, riconobbe sul suo corpo varie ferite d’arme da taglio; altrettanto riscontrò sui cadaveri degli altri. Norma aveva le mani legate in avanti, mentre alle altre vittime erano state legate dietro.

Da prigionieri partigiani, presi in seguito da militari italiani istriani, si seppe che Norma, durante la prigionia venne violentata da molti.
Un’altra deposizione aggiunge i seguenti particolari: “Cossetto Norma, rinchiusa da partigiani nella ex caserma dei Carabinieri di Antignana, fu fissata ad un tavolo con legature alle mani e ai piedi e violentata per tutta la notte da diciassette aguzzini. Venne poi gettata nella e foiba… (N.d.R.: segue la descrizione delle torture) …

…La salma di Norma fu composta nella piccola cappella mortuaria del cimitero di Castellerier.
Dei suoi diciassette torturatori, sei furono arrestati e obbligati a passare l’ultima notte della loro vita nella cappella mortuaria del locale cimitero per vegliare la salma, composta al centro, alla luce tremolante di due ceri, nel fetore acre della decomposizione di quel corpo che essi avevano seviziato sessantasette giorni prima, nell’attesa angosciosa della morte certa.

Soli, con la loro vittima, con il peso enorme dei loro rimorsi, tre impazzirono e all’alba caddero con gli altri, fucilati a colpi di mitra …“

Il 22-12-2005, dopo 50 anni di totale oblio da parte dello Stato, il presidente Ciampi ha concesso una medaglia d’oro per merito civile alla ragazza istriana barbaramente trucidata dai titini.

Quando la prossima volta vi sentirete raccontare che le foibe sono una favola o che comunque non meritano attenzione trattandosi di esecuzioni di ‘gente di destra‘, quindi ‘giuste e comprensibili‘, ricordatevi di Norma e state in guardia: chi vi sta dicendo questo, sta massacrando ancora una volta Norma e tutti gli sventurati che hanno avuto il suo destino.

fabreezer
00giovedì 10 febbraio 2011 11:55
Mio nonno era lì nella seconda guerra mondiale e mi ha raccontato più volte cosa ha visto con i suoi occhi.
Persone legate a pali con le mani dietro il corpo e strette con il fil di ferro e, nelle mani, i loro occhi strappati.
superpeppe84
00giovedì 10 febbraio 2011 12:01
Re: Re: Re:
fabreezer, 10/02/2011 11.49:




Ho copiato ed incollato diversi racconti, molti dei quali presi da siti.
Quello che hai quotato tu era un commento preso da facebook e fatto da una persona e, quindi, può risultare "di parte".
Anche se, di certo, le truppe di Tito erano tutto fuorché fasciste...


Forse ti piacerà questa versione, impersonale, che non punta il dito, che lascia intendere...


È diventata, suo malgrado, il simbolo degli ‘infoibati‘.

Era una ragazza di 24 anni di S. Domenico di Visinada, laureanda in lettere e filosofia presso l’università di Padova.
In quel periodo girava in bicicletta per i comuni dell’Istria per preparare il materiale per la sua tesi di laurea, che aveva per titolo “L’Istria Rossa” (Terra rossa per la bauxite).

Il 25 settembre 1943 un gruppo di partigiani irruppe in casa Cossetto razziando ogni cosa (espropriazione proletaria).
Entrarono perfino nelle camere, sparando sopra i letti per spaventare le persone.
Il giorno successivo prelevarono Norma.
Venne condotta prima nella ex caserma dei Carabinieri di Visignano dove i capibanda si divertirono a tormentarla, promettendole libertà e mansioni direttive, se avesse accettato di collaborare e di aggregarsi alle loro imprese.

Al netto rifiuto, la rinchiusero nella ex caserma della Guardia di Finanza a Parenzo assieme ad altri parenti, conoscenti ed amici tra i quali Eugenio Cossetto, Antonio Posar, Antonio Ferrarin, Ada Riosa vedova Mechis in Sciortino, Maria Valenti, Umberto Zotter ed altri, tutti di San Domenico, Castellier, Ghedda, Villanova e Parenzo.
Dopo una sosta di un paio di giorni, vennero tutti trasferiti durante la notte e trasportati con un camion nella scuola di Antignana, dove Norma iniziò il suo vero martirio.

Fissata ad un tavolo con alcune corde, venne violentata da diciassette aguzzini, ubriachi e esaltati, quindi gettata nuda nella foiba poco distante, sulla catasta degli altri cadaveri degli istriani.
Una signora di Antignana che abitava di fronte, sentendo dal primo pomeriggio gemiti e lamenti, verso sera, appena buio, osò avvicinarsi alle imposte socchiuse. Vide la ragazza legata al tavolo e la udí, distintamente, invocare la mamma e chiedere da bere per pietà…
(Tralascio per pudore e carità cristiana di descrivere i tormenti cui fu sottoposta, ma posso dire che furono tra i più bestiali di cui io sia a conoscenza).

Il 13 ottobre 1943 a S. Domenico ritornarono i tedeschi i quali, su richiesta di Licia, sorella di Norma, catturarono alcuni partigiani che raccontarono la sua tragica fine e quella di suo padre.
Il 10 dicembre 1943 i Vigili del fuoco di Pola, al comando del maresciallo Harzarich, ricuperarono la sua salma: era caduta supina, nuda, con le braccia legate con il filo di ferro, su un cumulo di altri cadaveri aggrovigliati; aveva ambedue i seni pugnalati ed altre parti del corpo sfregiate. Emanuele Cossetto, che identificò la nipote Norma, riconobbe sul suo corpo varie ferite d’arme da taglio; altrettanto riscontrò sui cadaveri degli altri. Norma aveva le mani legate in avanti, mentre alle altre vittime erano state legate dietro.

Da prigionieri partigiani, presi in seguito da militari italiani istriani, si seppe che Norma, durante la prigionia venne violentata da molti.
Un’altra deposizione aggiunge i seguenti particolari: “Cossetto Norma, rinchiusa da partigiani nella ex caserma dei Carabinieri di Antignana, fu fissata ad un tavolo con legature alle mani e ai piedi e violentata per tutta la notte da diciassette aguzzini. Venne poi gettata nella e foiba… (N.d.R.: segue la descrizione delle torture) …

…La salma di Norma fu composta nella piccola cappella mortuaria del cimitero di Castellerier.
Dei suoi diciassette torturatori, sei furono arrestati e obbligati a passare l’ultima notte della loro vita nella cappella mortuaria del locale cimitero per vegliare la salma, composta al centro, alla luce tremolante di due ceri, nel fetore acre della decomposizione di quel corpo che essi avevano seviziato sessantasette giorni prima, nell’attesa angosciosa della morte certa.

Soli, con la loro vittima, con il peso enorme dei loro rimorsi, tre impazzirono e all’alba caddero con gli altri, fucilati a colpi di mitra …“

Il 22-12-2005, dopo 50 anni di totale oblio da parte dello Stato, il presidente Ciampi ha concesso una medaglia d’oro per merito civile alla ragazza istriana barbaramente trucidata dai titini.

Quando la prossima volta vi sentirete raccontare che le foibe sono una favola o che comunque non meritano attenzione trattandosi di esecuzioni di ‘gente di destra‘, quindi ‘giuste e comprensibili‘, ricordatevi di Norma e state in guardia: chi vi sta dicendo questo, sta massacrando ancora una volta Norma e tutti gli sventurati che hanno avuto il suo destino.




Non mi interessa sapere chi è stato e chi non è stato, nè per le foibe nè per le fosse ardeatine, nè per i campi di concentramento, nè per i campi di rieducazione. Il mio rispetto va a tutte le vittime innocenti indistintamente ed indipendentemente dalla mano dell'assassino. E sarebbe più intelligente fare un giorno unico per la memoria di tutte le vittime innocenti di tutte le guerre, anche quelle che continuiamo a combattere. Ogni giorno ricordiamo una strage diversa, facendo a gara "a chi ce l'ha più grosso", ma il vero senso del ricordo solo a pochi entra nelle menti.
wholly
00giovedì 10 febbraio 2011 12:04
Intervengo in veste di moderatore della sezione, perchè mi sembra che si stia spingendo questa discussione verso una direzione ben precisa.
Forse mi sto sbagliando, ma credo sia bene mettere in chiaro subito certe cose.

Il dramma delle foibe è ben complesso e vi sono tesi altamente contrastanti sulle dinamiche che lo hanno contraddistinto.
Ridurre questo dramma a quella rappresentazione manichea che ne ha dato una certa parte politica nel recente passato (con ovvie finalità di attualizzazione e strumentalizzazione politica) è un gioco che non può essere consentito.

Ricordare e rispettare i morti è giusto.
Cercare di ricostruire i fatti storici lo è altrettanto, anche se dovrebbe essere uno studio rigoroso, basato su fonti autorevoli.

Dare letture politiche attuali di queste vicende è invece assolutamente inaccettabile.
Non soltanto è inaccettabile, ma è pure vietato dal regolamento del forum.
Sk8ter Mania XI
00giovedì 10 febbraio 2011 12:09
VerbalKint
00giovedì 10 febbraio 2011 12:19
fatti tragici, che purtroppo salgono alla ribalta solo per essere strumentalizzati.
Dovremmo invece sempre averli a mente, per capire come il nazionalismo sia la culla dei peggiori istinti dell'uomo, in ogni parte del mondo.

Il novecento da questo punto di vista dovrebbe averci insegnato molto, specie a noi italiani. Ma se vediamo l'attualità, invece...
babadyer7
00giovedì 10 febbraio 2011 12:26
tragedia enorme e purtroppo chissa' quante persone sono ancora la sotto.
di sti eccidi di massa purtroppo ne avvengono tutt'ora in diversi paesi del mondo, ma evidenziarli e' sempre UN DOVERE.
Sottolineo anche che per farvi un po' di chiarezza storica quello di tito non era solo comunismo, ma un NAZIONAL-COMUNISMO.

quoto bart e verbal
superpeppe84
00giovedì 10 febbraio 2011 12:27
Re:
wholly, 10/02/2011 12.04:

Intervengo in veste di moderatore della sezione, perchè mi sembra che si stia spingendo questa discussione verso una direzione ben precisa.
Forse mi sto sbagliando, ma credo sia bene mettere in chiaro subito certe cose.

Il dramma delle foibe è ben complesso e vi sono tesi altamente contrastanti sulle dinamiche che lo hanno contraddistinto.
Ridurre questo dramma a quella rappresentazione manichea che ne ha dato una certa parte politica nel recente passato (con ovvie finalità di attualizzazione e strumentalizzazione politica) è un gioco che non può essere consentito.

Ricordare e rispettare i morti è giusto.
Cercare di ricostruire i fatti storici lo è altrettanto, anche se dovrebbe essere uno studio rigoroso, basato su fonti autorevoli.

Dare letture politiche attuali di queste vicende è invece assolutamente inaccettabile.
Non soltanto è inaccettabile, ma è pure vietato dal regolamento del forum.



Esattamente quello che volevo dire io. Ci sei riuscito meglio.


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