Generazione Joypad. Il morboso amore per Babangida e Winning Eleven 4
Matteo Aiello -
zona cesarini
“Pronto”.
“Matte, sono io”.
“Ciao Ale, com’è?”.
“Tutto bene. Senti, ho bisogno di farti vedere una cosa. Ce la fai a passare da me?”.
“Sì, vengo un’oretta che poi devo studiare”.
“Ecco, allora datti una mossa. Lorenzo mi ha prestato un giochino. Non puoi capire”.
“Boia, così allucinante?”.
“Matte, non puoi capire…”.
“Ok, mi vesto e arrivo. A tra poco”.
“Fai veloce!”.
Anche se negli ultimi anni ci siamo persi di vista per questioni logistiche e non solo, considero Ale, ovvero Alessio, il mio più grande amico. Siamo nati e cresciuti insieme e abbiamo condiviso qualsiasi cosa. Pur avendo due caratteri opposti ma simili, io ed Ale andavamo così d’accordo perché avevamo gli stessi gusti. Su tutto. Dalle domeniche al cinema alla venerazione per i film di Sylvester Stallone e per la discografia dei Guns n’ Roses fino ai videogiochi e ai pomeriggi passati a giocare a Doom e Wolfenstein 3D sul mai dimenticato 486.
Non sapevo di cosa stesse parlando, ma dal tono euforico con cui mi aveva detto di correre da lui doveva trattarsi di roba grossa. Appena entrai in casa, sua madre mi disse che si era chiuso in camera dopo essere tornato da scuola. Bussai alla porta e lo trovai seduto con il joypad della Playstation in mano con davanti un videogioco calcistico a volume sostenuto. Era talmente preso che a malapena si era accorto che ero entrato. Guardai il monitor della televisione e mi cadde subito l’occhio sul risultato: 2-0 per il Camerun. Lui era la Nigeria.
“Camerun – Nigeria? Ma che partita è?”, gli chiesi.
“Coppa d’Africa”.
“Sarebbe questo il giochino bomba?”.
“Sì”.
“Ma è scritto tutto in giapponese?”.
“Sì”.
Anche il telecronista parlava giapponese e mi venne da sorridere quando mi accorsi di come pronunciava i nomi dei calciatori africani. Continuavo a non capire e Alessio non mi stava aiutando, perché sembrava quasi infastidito. Probabilmente lo era davvero. Avrei voluto chiedergli qualcos’altro, ma temevo che continuasse a rispondermi a monosillabi. O che non mi rispondesse proprio.
Un passaggio filtrante di Okocha mise davanti alla porta il numero 13 nigeriano. Finta, Songo’o per terra, appoggio di sinistro a porta vuota e Nigeria che accorcia lo svantaggio.
“Eccolo lì il Fenomeno! Eccolo!” gridò Alessio alzando le braccia al cielo, “dai ragazzi che la pareggiamo!”.
Il gol del 2-1 lo portò in trance agonistica. Iniziò ad inveire contro chiunque. Contro i suoi quando perdevano un contrasto o quando sbagliavano un passaggio, contro gli avversari quando non riusciva a portargli via il pallone, contro l’arbitro che, secondo lui, non gli fischiava un fallo a favore e addirittura contro il povero telecronista.
Dopo aver sofferto gli attacchi dei camerunensi, da una ripartenza, il pallone arrivò sulla fascia sinistra ancora al numero 13 nigeriano che partì in progressione palla al piede spinto dall’incitamento di chi, sulla sedia, stava premendo R1. I difensori avversari non riuscivano a stargli dietro e appena entrato in area di rigore, lasciò partire un diagonale di destro che bucò per la seconda volta Songo’o. Camerun 2, Nigeria 2.
“Il Fenomeno!!! Ancora lui!!!” gridò, questa volta smulinando le braccia.
La situazione era ormai fuori controllo e Alessio, inconsciamente, stava scrivendo una bellissima pagina di teatro dell’assurdo. Così assurdo che aveva coinvolto anche me. Non so se è mai capitato anche a voi, ma certe volte mi diverto più a vedere qualcuno che gioca ad un videogioco piuttosto che a giocarci.
“Ma chi è quell’imprendibile?” gli chiesi.
“Babangida” mi rispose, “il calciatore più forte del mondo.”
So che per alcuni di voi (non voglio scrivere i più giovani, perché mi fa sentire un vecchio decrepito), la scenetta che ho appena descritto potrà sembrarvi assurda, ma credetemi. Perché alla fine degli anni novanta, Ronaldo e Zidane erano indiscutibilmente i due giocatori migliori del globo, ma se a qualcuno chiedevi una top five, il nome di Tijani Babangida non restava mai fuori. Tutto questo grazie a quel videogioco incredibile che nel giro di pochi mesi riuscì ad infettare milioni di ragazzi.
Anche perché la vera carriera di Tijani Babangida, detto TJ, non è stata niente di che. Cresciuto nei Niger Tornadoes, fu acquistato dal Roda JC e girato in prestito al VVV Venlo dove esordì in Eredivisie a diciassette anni. Giocò soltanto sei partite, ma riuscì comunque a segnare tre gol. Il piccolo Venlo fu retrocesso e il prestito fu rinnovato per un’altra stagione, dove Babangida si impossessò della fascia, destra o sinistra era irrilevante, mostrando qual era la sua migliore abilità: se su Google digitate il suo nome, appariranno due voci: PES e speed.
Correndo ad una velocità mai vista su un campo di calcio, Babangida riportò il Venlo in Eredivisie timbrando per sedici volte il cartellino dei marcatori. A fine campionato, il Roda lo riportò a Kerkrade, dove restò per tre stagioni realizzando complessivamente ventitré gol in settantadue partite, arricchiti da una storica qualificazione alla Coppa Uefa. Entrò nel giro della Nazionale seppur in un ruolo marginale dato che nella sua stessa posizione giocava Finidi George, ai tempi una delle stelle delle Super Eagles.
La Nigeria campione olimpica del 1996
TJ però ebbe il suo momento di gloria assoluta quando la Nigeria vinse la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Atlanta ’96 dopo aver battuto il Brasile di Bebeto, Rivaldo, Roberto Carlos e Ronaldo in semifinale per 4-3 con un golden gol di Nwankwo Kanu e l’Argentina di Ortega, Claudio Lopez, Crespo, Simeone e Zanetti nella finalissima per 3-2.
Furono proprio le sue prestazioni in campo Europeo ed internazionale a convincere Louis Van Gaal a prenderlo all’Ajax per sostituire proprio Finidi George passato al Betis Siviglia. D’altronde si sa, quando in Olanda dimostri di poter fare la differenza, allora devi per forza indossare l’iconica maglietta bianca con la striscia verticale rossa.
Dopo aver bruciato l’erba del Parkstad Limburg Stadion, TJ sbarcò ad Amsterdam. L’inizio fu travolgente. La prima stagione, l’Ajax vinse l’Eredivisie e la Coppa d’Olanda e Babangida restò sui suoi abituali standard, disputando anche un eccellente Mondiale francese dove la Nigeria fu eliminata agli ottavi dalla Danimarca dei fratelli Laudrup.
Perse la prima parte della stagione successiva a causa della malaria e quando era prossimo al rientro, trovò l’Ajax in difficoltà. Sia Morten Olsen che fu esonerato a metà campionato, sia il suo sostituto Jan Wouters, cominciarono a preferirgli il giovane danese Jesper Gronkjaer, più lento ma molto più tecnico. Da titolare inamovibile, TJ si ritrovò spesso in panchina e dopo un altro anno passato a fare la riserva, fu ceduto in prestito ai turchi del Genclerbirligi (se riuscite a leggerlo in modo corretto alla prima, la redazione di Zona Cesarini vi regalerà la sua maglietta autografata) dove giocò dodici partite segnando due gol.
I Turchi non lo riscattarono e l’Ajax, che ormai lo riteneva fuori dal progetto, lo girò ancora in prestito al Vitesse, allenato da Ronald Koeman. Ormai la sua carriera era in parabola discendente e neppure la compagine olandese lo riscattò. Per TJ iniziò il classico giro turistico del calciatore in declino: un anno in Arabia Saudita all’Al Ittihad (dove per altro, rescisse il contratto dopo sole cinque partite) e un’ultima stagione in Cina al Changchun Yatai, prima di dire basta.
Eppure, nonostante tutto, Tijani Babangida è ancora oggi il simbolo di un’intera epoca. Della generazione dei trentenni odierni come me che passavano giornate intere a sfidare gli amici – rischiando molto spesso di rovinare l’amicizia con il proprio avversario e chi ha tirato o subito un rigore centrale sa di cosa sto parlando – segregati dentro camera, abbandonando del tutto la propria vita sociale. Scuola e Playstation. Stop. E quando ogni tanto si usciva, l’argomento di conversazione era soltanto uno.
Winning Eleven 4 è stato davvero il punto zero come Are You Experienced della Jimi Hendrix Experience per i chitarristi. Ha spazzato via la concorrenza che pure era alta dato che Fifa ’98 è stato, per me, il punto massimo raggiunto dalla EA Sports. È stato il primo videogioco di calcio “difficile”, dove a qualsiasi livello se prima non imparavi a giocare non vincevi mai ed ha introdotto una serie di cose che sono servite come apripista per i capitoli successivi. Non solo della Konami.
Il classico gol alla Babangida, sterzata secca e portiere a terra
A partire dal poter cambiare la tattica durante la partita, e che per la prima volta un calciatore destro aveva più difficoltà a calciare con l’altro piede e viceversa. Ha curato nel dettaglio di una console a 32 bit i particolari estetici dei giocatori: Davids aveva le treccine, Taribo West le corna verdi sulla testa, Zidane la chierica, Beckham il caschetto biondo e gli scarpini bianchi e Ronaldo le Nike R9 ai piedi. E ovviamente, Roberto Carlos calciava le punizioni con le tre dita, prendendo la rincorsa lunghissima.
Ma quella che reputo l’innovazione più rivoluzionaria è stata la Master League. Partire con una squadra di club con ventidue giocatori scarsi e sconosciuti e dover vincere in ogni modo per guadagnare crediti per comprare i calciatori reali, ha davvero distrutto la vita sociale di ognuno di noi. Un altro motivo per cui Babangida è entrato nel mito è perché, oltre ad essere il calciatore più veloce di tutto il gioco, costava poco e bastava lui in squadra per fare la differenza. Di conseguenza, i primi guadagni venivano messi da parte per poterlo comprare.
Per quanto oggi la Konami sia in ritardo, ma in ripresa dopo alcuni anni di oblio, rispetto alla EA e che in tanti siano tornati a giocare a Fifa, Winning Eleven 4 è e resta il miglior gioco di calcio che sia mai stato concepito. Perché per quanto la tecnologia si sia evoluta, le animazioni dei giocatori siano identiche alle controparti umane e si provi in tutti i modi di ricreare il realismo di una partita vera, i nuovi titoli hanno perso tutto il romanticismo che si trovava in quegli omini tozzi con la testa cubica e in quella telecronaca grottesca e sguaiata di Jon Kabira.
Il missile da fermo di Roberto Carlos
Non potete capire come vorrei rivivere anche solo per una volta uno di quei pomeriggi. Chiudo l’articolo con le formazioni che utilizzavamo io, Alessio ed altri due nostri amici. Tutti rigorosamente con il 4-2-1-3.
Matteo – Inghilterra:
Seaman
Neville Campbell Southgate Le Saux
Butt Scholes
Beckham
McManaman Shearer Owen
Alessio – Nigeria:
Rufai
Finidi Okechukwu West Babayaro
Adepoju Oliseh
Okocha
Amokachi Kanu Babangida
Lorenzo – Argentina:
Roa
Pochettino Ayala Sensini Zanetti
Almeyda Veron
Ortega
Crespo Batistuta C.Lopez
Francesco – Brasile:
Rogerio Ceni
Cafù Odvan Cesar Zé Roberto
Emerson F.Conceiçao
Rivaldo
R.Carlos Romario Ronaldo
Perché se prendevi il Brasile e non mettevi Roberto Carlos in attacco, non eri nessuno.